Se equipariamo (grezzamente) la mente umana ad un processore informatico, possiamo distinguere due grandi sfere di prestazione: la potenza del processore (che determina la velocità di elaborazione dei dati) e l’utilizzo della potenza: concentrato su un singolo task o programma (monotasking) oppure distribuito su compiti multipli e più programmi (multitasking).
In termini mentali, la potenza del processore equivale alla rapidità cognitiva o rapidità del pensiero (soprattutto, la capacità di cogliere collegamenti tra variabili), mentre l’applicazione (monotasking vs. multitasking) equivale alla capacità di concentrazione mentale su un singolo problema o obiettivo.
L’abilità di ragionamento ha una componente genetica ma anche e soprattutto una forte componente esercitabile, praticabile, un’area di crescita che dipende da ciò che la nostra mente apprende a fare dalla nascita in poi.
All’interno di questa area, la parte relativa agli stimoli familiari, scolastici e dei media, ha un forte influsso: individui che hanno vissuto in un clima relazionale povero, che hanno avuto poche stimolazioni, pochi input sensoriali ed esperienziali, sono meno rapidi nel risolvere i problemi. La rapidità cognitiva richiede allenamento. Ma l’allenamento si può praticare.
Principio 9 – Rapidità cognitiva e problem solving
Le energie mentali diminuiscono o si esauriscono quando:
l’individuo cresce in un ambiente apatico, che non stimola ad inquadrare i problemi da analizzare (problem setting) e a risolvere problemi (problem solving);
l’individuo non mantiene un allenamento adeguato (per frequenza e intensità) sul problem setting e problem solving, o si fissa entro una sola delle due attività;
i problemi di grande portata non vengono scissi in sub-problemi affrontabili;
l’individuo non dispone di tools adeguati (strategie mentali) per risolvere i problemi in modo più rapido ed efficiente;
i materiali posti sotto forma di problema sono di quantità e complessità tale da superare le capacità individuali e si genera overload (sovraccarico mentale);
i materiali posti sotto forma di problema sono sgradevoli affettivamente per il soggetto, o sono estremamente lontani dalle proprie inclinazioni, interessi e attitudini.
Le energie mentali aumentano quando:
vengono acquisite abilità di problem setting (saper fissare i problemi, saperli localizzare, saperli inquadrare) e di problem-solving (risoluzione);
si ricerca equilibrio e distinzione tra le due attività (localizzare e risolvere problemi);
i problemi affrontati sono di misura e quantità gestibile;
viene allenata la flessibilità cognitiva tramite tecniche (stretching mentale);
esiste collimazione tra le proprie inclinazioni e il tema su cui applicare le proprie capacità o i problemi da risolvere.
Una delle forme di allenamento più utili nel determinare rapidità cognitiva e pensiero logico nel metodo HPM è la ricerca della precisione e chiarezza del linguaggio, svolta con appositi esercizi. Il training consiste nell’esercitarsi a produrre frasi brevi e compiute, con un effetto di riverbero forte sulla capacità di pensare in modo conciso e concentrato.
Le teste vuote hanno lingue lunghe.
Bruce Lee
Dobbiamo notare che questa tecnica allena la capacità di sintesi e di essere rapidi e concisi nel pensiero, mentre altre devono invece allenare la capacità di allargamento e creatività.
Le performance richiedono entrambe, ma al momento giusto.
Al di là di quanto sia ampio il patrimonio genetico, e al di là dell’acculturazione individuale, ciascuna persona può autonomamente dedicare parte del proprio tempo ad allenare la mente al ragionamento.
Nel training dedicato al problem solving sarà indispensabile procedere per gradi, assimilare strumenti di problem setting (imparare a fissare bene i termini del problema). Impegnarsi ed allenarsi in una tecnica di analisi dei problemi (es.:, il DCE, Diagramma di Causa-Effetto) allena la mente ad affrontarli.
È necessario evitare di esporre all’elaborazione mentale una mole eccessiva di dati o problematiche (sovraccarico o overload), a meno che non si tratti di una precisa strategia allenante di sovraccarico intenzionale (overreaching), che va ingegnerizzata e non deve accadere nella normalità.
Dobbiamo inoltre considerare il tema del piacere insito nelle varie attività. La sgradevolezza affettiva differenzia notevolmente l’operato freddo di un computer da quello di un essere umano vivo. Per un PC non si pone il problema se i dati o problemi da elaborare siano o meno affini con le proprie inclinazioni, mentre per un essere umano sì, e questo influisce sulle energie mentali che si riescono ad attivare sul task.
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Essere consapevoli dei propri strumenti operativi (tools funzionali) e dei propri strumenti analitici e conoscitivi di base (meta-strumenti)
Se credo di poterlo fare,
acquisirò sicuramente la capacità di farlo,
anche se all’inizio non dovessi averla
Mahatma Gandhi
L’autoefficacia è un concetto che fa riferimento al “senso delle proprie possibilità”. La coscienza di ciò che è veramente nella sfera delle nostre possibilità e quello che non lo è in un certo momento, ci permette di fare letture corrette della situazione e dei compiti che ci attendono, senza cadere vittima di demoralizzazione precoce o inutile.
Bandura[1], sviluppatore del concetto sul piano scientifico, considera che l’autoefficacia percepita sia un insieme di credenze che le persone possiedono rispetto alle loro capacità di produrre livelli designati di performance specifiche (non generali), esercitare influenza sugli eventi e sulle proprie vite.
Include, inoltre, l’atteggiamento positivo verso la capacità di raccogliere sfide o porsi nuove sfide.
Nel nostro metodo, riteniamo che l’autoefficacia dipenda largamente dall’autostima ma anche dalla consapevolezza corretta, non distorta, dei repertori di esperienze e competenze possedute e di ciò che con quei repertori possiamo fare. Spesso queste possibilità sono enormi e inesplorate.
L’autoefficacia produce il fatto di non abbandonare di fronte a punti d’arresto, perseverare (resilienza), lavorando per ottimizzare i propri progetti, consapevoli della forza intrinseca che essi possono avere.
Come evidenziato in un articolo del Wall Street Journal, in un brano dal titolo illuminante: “Se all’inizio non hai successo, sei in una azienda eccellente”, i veri successi sono spesso preceduti da dinieghi o porte chiuse[2].
Tra i casi citati: il libro di J. K. Rowling rifiutato da 12 editori prima che una piccola casa editrice londinese lo pubblicasse come “Harry Potter e la Pietra Filosofale”, un successo mondiale. La Decca Records che, in uno dei primi provini dei Beatles, disse “non ci piace il loro suono”. Walt Disney fu licenziato da un editor di un giornale, dicendo che egli “mancava di immaginazione.” Michael Jordan (il più grande giocatore di basket della storia) non venne considerato da ragazzino all’altezza del team di basket della sua scuola superiore.
Senza una sana dose di autoefficacia e di resilienza, queste persone avrebbero abbandonato la propria strada.
L’autoefficacia richiede la consapevolezza dei propri strumenti operativi (tools funzionali) e dei propri strumenti analitici e conoscitivi di base (meta-strumenti). Sapere di poter imparare vale più della conoscenza in sé.
Se diminuisce la percezione di disporre di tali strumenti, prevalgono atteggiamenti di rinuncia, la continua richiesta di aiuto anche su ciò che è invece nel nostro campo di fattibilità, l’immagine di “non essere ancora pronto per…”, o il sentimento negativo “non fa per me, e non ci posso nemmeno provare, o prepararmi per…”.
L’autoefficacia richiede un certo grado di accettazione ragionata del rischio e la consapevolezza che – per molti task – non è indispensabile la perfezione prima di poter passare all’azione. Spesso è sufficiente una dose di comprensione (attuale o potenziale) della materia, un buon spirito di adattamento e una buona capacità generale di problem solving, per poter affrontare larga parte dei problemi o sfide manageriali, sportive, o personali.
La consapevolezza delle proprie meta-competenze è un punto basilare.
Non è necessario avere già fatto qualcosa per sentire di poterlo fare, ma è indispensabile avere coscienza della propria capacità di generare soluzioni, di analizzare problemi, di comprendere dinamiche, e sapere di poter apprendere. Questi meta-fattori aiutano ad accettare anche sfide e compiti sui quali non esiste ancora esperienza specifica diretta o consolidata.
L’autoefficacia non deve diventare sensazione di onnipotenza o delirio, va dovutamente bilanciata con la saggezza e senso pratico, ma questi ancoraggi al realismo non devono impedire di perseguire un sogno difficile che abbia qualche probabilità di successo. La paura di fallire o incontrare difficoltà non deve fermare aspirazioni giuste e sogni sfidanti.
Il caso di un docente cui viene chiesto di fare una lezione su temi non esattamente pertinenti alla propria formazione, ma vicini, è un esempio concreto. La flessibilità mentale è un fattore vincente.
Un docente che insegna statistica ed ha basso livello di autoefficacia non accetterà di insegnare una materia come la Qualità Totale (trovandovi molte differenze rispetto alla propria), mentre al contrario sarebbe assolutamente fattibile. Tale materia è ampiamente basata su metodi statistici. Aumentando l’autoefficacia, la stessa persona potrà lanciarsi verso l’insegnamento di Qualità Totale, ma anche altro, es.: Metodi di Ricerca, sapendo di avere sia una buona base e soprattutto le capacità di apprendimento che servono per poter acquisire ciò che manca.
In sostanza, quel docente conosce già almeno il 90% di un possibile programma, e sa che potrà apprendere il rimanente 10% con poco sforzo. Un individuo con bassa autoefficacia si concentrerà sul 10% da apprendere e sul come apprenderlo, un individuo con bassa autoefficacia lo vedrà come “quel 10% che manca, per cui non si può fare”. Una differenza notevole!
Lo stesso vale per un istruttore di karatè cui viene richiesto di insegnare difesa personale. Un istruttore con alto livello di autoefficacia capirà immediatamente che le sue skill di base sono ampiamente sufficienti ad insegnare a qualcuno come difendersi, e se percepisce una lacuna nel suo set di conoscenze si adopererà per colmarla. Un istruttore con basso livello di autoefficacia coglierà ogni possibile “scusa” per non farlo: “non è la mia materia”, “non so come si faccia”, “non sono preparato” etc.
Un’alta autoefficacia è basata sull’orientamento a cogliere, in ogni sfida, ciò che è fattibile, ciò che è realizzabile o quantomeno tentabile, e la ricerca autonoma di strumenti per colmare le eventuali carenze.
Una bassa autoefficacia vede la dominanza di un orientamento a cogliere la parte negativa della sfida, la concentrazione prevalente sulle proprie lacune e non sulle proprie possibilità, l’assenza di sforzi per dotarsi di strumenti ulteriori che permetterebbero di sentirsi all’altezza.
Allo stesso tempo, l’autoefficacia si correla alla consapevolezza di dove, quanto e come siamo in grado di potercela fare da soli. Questo punto (indipendenza e autonomia) non deve essere confuso con una chiusura verso l’esterno e verso l’aiuto. Autoefficacia anzi significa anche capire e volere l’aiuto che serve a compiere un progetto, ma con una consapevolezza di dove realmente si colloca il confine delle proprie capacità autonome e dove è importante ricercare aiuto. Coltivare coscienza di sé è fondamentale.
Le persone che sviluppano un alto livello di autoefficacia hanno credenze positive sulle loro capacità di raggiungere i goal, accettano sfide superiori, e provano con maggiore forza e impegno a raggiungere i loro obiettivi, dando il massimo delle loro capacità.
Chi ha una alta autoefficacia, pensa, agisce e affronta una sfida come se stia per avere successo. Chi ha bassa auto efficacia intraprende la sfida dandosi per perdente dall’inizio.
Diventa essenziale per ogni coach o counselor capire a quali modelli di autoefficacia sia stata esposta una persona, quali abbia assimilato, quali siano attivi, e soprattutto se vi siano dissonanze interiori o modeling negativi da fonte genitoriale o sociale, attivi sulla persona.
[1] Bandura, A. (1994), Self-efficacy, in V. S. Ramachaudran (Ed.), Encyclopedia of human behavior (vol. 4, pp. 71-81), Academic Press, New York (Reprinted in H. Friedman [Ed.], Encyclopedia of mental health, San Diego, Academic Press, 1998).
Bandura, A. (1986), Social foundations of thought and action: A social cognitive theory, Englewood Cliffs, NJ, Prentice-Hall.
Bandura, A. (1991a), Self-efficacy mechanism in physiological activation and health-promoting behavior, in J. Madden, IV (Ed.), Neurobiology of learning, emotion and affect (pp. 229- 270), Raven, New York.
Bandura, A. (1991b), Self-regulation of motivation through anticipatory and self-regulatory mechanisms, in R. A. Dienstbier (Ed.), Perspectives on motivation: Nebraska symposium on motivation (Vol. 38, pp. 69-164), University of Nebraska Press, Lincoln.
[2] Beck, M. (2008), If at First You Don’t Succeed, You’re in Excellent Company, The Wall Street Journal, April 29, p. D1.
Alcune domande chiave da porsi o da porre in termini di coaching:
Che desideri stai frenando per colpa di competenze che ti mancano?
In quali campi ti senti efficace e in quali meno?
Guardandoti indietro, cosa tenteresti adesso? Quali progetti, idee o ambizioni hai frenato perché non ti consideravi all’altezza?
Guardando avanti, cosa ti darebbe soddisfazione, cosa vorresti dire di aver fatto tra 10 anni?
Di cosa ti pentiresti se dovessi pensare di morire senza aver fatto qualcosa cui tieni? Cosa in particolare?
Cosa vorresti poter dire di aver fatto di buono, la prossima settimana?
Facciamo un elenco di idee o progetti anche ambiziosi che ti darebbero gratificazione, sogniamo ad occhi aperti per un pò.
Se dovessimo pensare ad una tua giornata ideale, come sarebbe?
In un anno ideale, cosa faresti?
Quanto siamo lontani adesso da (… sentirsi bene, sentirsi felici, sentirsi gratificati, aver raggiunto i tuoi scopi, etc…), e perché secondo te?
Nell’osservare i propri ragionamenti, o quelli di un cliente, ci si potrà concentrare non solo sui contenuti, ma anche sul senso generale di possibilità, di autoefficacia, di padronanza, sulle auto-percezioni, sulle credenze che trasudano, sugli archetipi di sè che emergono, sullo spirito di avventura e ricerca, o invece di rinuncia e disfattismo che permeano la persona. Su questi sarà importante lavorare seriamente, ancor più che sui contenuti.
Le energie mentali diminuiscono o si esauriscono quando:
l’individuo non è consapevole delle proprie potenzialità reali;
l’individuo non è consapevole di come le proprie meta-competenze possano trasformarsi in competenze applicative su nuovi compiti;
l’individuo coglie prevalentemente gli aspetti di difficoltà di una sfida e non quelli di fattibilità;
l’individuo non si attiva in una ricerca autonoma di strumenti per colmare i propri gaps percepiti;
l’individuo sviluppa eccessiva dipendenza sugli altri per portare a termine un compito e non sa contare sulle proprie forze interiori, o percepirle correttamente.
Le energie mentali aumentano quando:
l’individuo prende coscienza delle proprie potenzialità, sia teoriche, che per prova diretta;
l’individuo prende coscienza delle proprie meta-competenze e della possibilità di tradurle in competenze applicative in campi nuovi;
l’individuo tiene in considerazione i margini di fattibilità di una sfida e non solo quelli di difficoltà, applicandosi per aumentare le opzioni positive;
l’individuo è proattivo e si adopera attivamente in interventi che aumentano le proprie risorse o colmano gap, e in progetti di apprendimento e accrescimento;
l’individuo ha pieno accesso alla proprie forze interiori, sa individuare bene quante e quali sono le proprie energie, competenze e abilità.
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